giovedì 16 maggio 2013

Scazz' Matiedd - Michele Lancelotti

Legendary Fantasy Contest!
 
Scazz' matiedd

Era oramai qualche anno che Francesco mancava dalla Puglia: 3 per l'esattezza, ovvero dall'anno in cui sua nonna si era ammalata, preludio alla morte che era sopravvenuta, rapida, quello stesso Inverno. Aveva solo 10 anni allora, e da quel momento in poi sua madre non aveva più voluto tornare alla casa materna, considerandola evidentemente troppo carica di ricordi a lei cari. Non che a Francesco questa decisione dispiacesse: non era mai riuscito davvero a comunicare con sua nonna, la quale in vita era stata troppo tempo sola per coltivare un normale rapporto con il nipote o con il genero residenti al Nord, tanto da trasmettere loro la sgradevole sensazione di essere considerati poco più che sconosciuti.
Il piccolo paese nel quale viveva sua nonna era, inoltre, lontano anni luce dalla bella cittadina milanese in cui viveva: era retrogado e scomodo, con tutti quei gradoni intagliati nella roccia, e poi c'erano tutte quelle anziane vestite di nero, che lo fermavano per parlargli in una lingua che lui non riusciva a capire. Certo, crescendo questa visione era un po' cambiata, e forse addolcita dal ricordo: ora ciò che un tempo gli era sembrato antiquato gli appariva pittoresco, la scomodità una sfida, e gli anziani seduti sull'uscio della propria casa immancabili componenti di quella realtà.
Quell'anno, infatti, sua madre aveva deciso di tornare, e dopo il lungo viaggio lui era subito fuggito da una casa invasa dalla polvere e chissà quante altre forma di vita: se la sarebbe vista suo padre con loro, pensò, mentre lui sarebbe tornato per cena, a disinfestazione terminata. Aveva con sè l'immancabile tracolla, con dentro portafoglio, cellulare e un coltellino svizzero multiuso, dotato di bussola e luce al led, un neoacquisto di cui andava particolarmente fiero e con il quale avrebbe potuto forzare con facilità, immaginava, i lucchetti posti alle tante porte marcilente di quella che lui aveva per l'appunto ribatezzato come "la Via marcia", dando poi, con la piccola pila incorporata, una rapida occhiata al loro interno. Era, questo, un proposito che si era prefissato ricordandosi dei burleschi racconti dello Zio Antonio; quest'uomo era, nei suoi ricordi, l'unico parente della madre per cui provasse simpatia: poteva avere sui 50 anni, era basso, ben piazzato, con i capelli sempre arruffati, e ogni estate portava per lui un giocattolo, rispondendo poi con una marea di frottole alle sue curiosità. Ricordava di avergli chiesto, ormai 4 anni prima, chi abitava in quella via dove ogni casa era chiusa da un lucchetto e da ogni finestra infranta spuntavano rami e foglie, e suo zio gli aveva risposto che quella via un secolo prima era abitata da gran briganti, di quelli che infestavano i boschi derubando chiunque vi si avventurasse, e che ogni casa nascondeva un tesoro lasciato per i propri figli. Aveva aggiunto inoltre che, anche se questi ultimi se ne erano andati in America dimenticandosi perfino il nome del proprio paese d'origine, doveva stare bene attento e non pensare di poter per questo mettere le mani sui tesori, perchè quelle stesse case erano piene di trabocchetti ancora in funzione e un suo conoscente una volta ci era rimasto secco, ora cadendo in una botola profonda e piena di ratti famelici, ora rimanendo impigliato in una rete imbevuta di veleno, estratto da una pianta che solo da quelle parti si poteva trovare, negli angoli più remoti del cimitero locale. Francesco ricordava di ascoltare per ore questi racconti, non accorgendosi di come lo Zio Antonio si stesse in realtà divertendo a raccontare delle storielle al bimbetto di città, al ragazzino del Nord che credeva a ogni cosa gli venisse detta. Ora era cresciuto, e si rendeva conto che quelle storie volevano solo, allo stesso tempo, affascinarlo e tenerlo lontano da quella via sporca e piena di detriti, con ogni edificio pericolante per via del terremoto di quasi 50 anni prima. Questo adesso lo sapeva, ma sapeva anche che in quel paese i briganti c'erano stati, eccome. Per questo ora voleva aprire almeno una porta, per dare un'occhiata veloce all'interno, preda della curiosità. Naturalmente era sicuro di farcela, con il suo coltellino svizzero, doveva essere una cosa semplicissima, ma scoprì presto che non era così semplice, anzi. Aveva scelto una porticina seminascosta da un pezzo di muro diroccato, al riparo dallo sguardo di chi poteva passare dall'altro capo della via, una piccola porta marcilenta decorata da un groviglio di vecchie ragnatele e chiusa da una catena arrugginita alla quale era attaccato un lucchetto ridotto anche peggio. Eppure non volle cedere: provò a forzarlo con la lama del coltello, con le varie estremità appuntite e sottili che sembravano ai suoi occhi più che adatte allo scopo, infine con la piccola sega in dotazione provò a tranciare le catene, ma nulla, tutti i suoi sforzi risultarono vani.
Era deluso, non poteva nasconderlo. Tornò sui suoi passi, risalendo quei gradoni pieni di ciarpame, fino a ritrovarsi all'imbocco della via che lo avrebbe riportato a casa, ma senza nessuna voglia di tornarvi. Riflettè un momento sulle sue alternative (passare la giornata ad aiutare i suoi genitori o a rileggere i giornalini che si era portato da casa) e decise che la sua opzione migliore consisteva sicuramente nel procedere verso il secondo obbiettivo di quella sua spedizione: la torre diroccata.
Nelle storie dello Zio Antonio quel vecchio rudere era citato un'infinità di volte: inizialmente lo aveva dipinto come infestato da fantasmi, poi come covo dei briganti, infine aveva insistito con la storia degli scazz' matiedd, una specie di spiritelli maligni delle montagne, vendicativi e dispettosi, che sarebbero vissuti in una fenditura della roccia, alla quale era possibile accedere dalla base della torre. Questa fenditura, spiegava Zio Antonio, era profondissima, e si apriva fino al centro della terra stessa, da dove questi spiritelli provenivano, salvo poi rimanere intrappolati in questo mondo per tormentare chi osava avventurarsi di notte per le vie del castello.
La prima volta che aveva sentito parlare degli scazz' matiedd era solo un bambino di 6, 7 anni al massimo, e ricordò di essere rimasto molto impressionato, e di aver dato la cosa come per certa, confermata, peraltro, dall'effettiva presenza di quella fenditura, come gli aveva confermato suo padre. Eppure qualche anno dopo non aveva resistito, e aveva voluto vederla con i suoi occhi, così che una mattina si era inerpicato tra le rocce fino ad arrivare alla base dell'edificio, scoprendo che suo padre aveva detto il vero, che la fenditura c'era, eccome, anche se non sembrava nulla di che: appariva semplicemente come lo spazio vuoto tra 2 grandi massi, anche se all'epoca non osò scendere per approfondire la sua curiosità.
Prima di partire per la Puglia dopo quei 3 anni di assenza Francesco si era proposto di verificare quanto veramente fosse lungo quel passaggio: se era di centinaia di metri, come sosteneva suo Zio, o nulla di più che un pertugio deserto e ampio meno di qualche metro, come immaginava lui. Ora che aveva sondato la sua incapacità di forzare un vecchio lucchetto non gli rimaneva altro da fare che verificare questa sua teoria; di certo lui, a spiritelli, goblin o demonietti che fossero, ora non credeva più. Era davvero facile, pensò mentre si inerpicava tra il cumulo di terra e rocce, ingannare un bambino con tutte quelle assurdità, e rimpiangeva di essere stato tanto suggestionabile da piccolo, ma ora tutto era diverso, e stabilire con certezza che il rifugio degli scazz' matiedd fosse solo una leggenda sarebbe servito a lasciarsi definitivamente alle spalle quel periodo della sua vita: si sentiva grande, oramai, tra poco più di un anno sarebbe andato alle superiori, e i suoi gli avrebbero comprato un motorino. Erano finiti gli anni in cui credeva alle storielle, e non mancava mai di controllare con lo sguardo ogni angolo della sua stanza prima di spegnere la luce. Basta storielle. Basta frottole. Avrebbe messo fine in prima persona a tutto quanto, grazie alle sue capacità di scalatore e alla sua torcia, e avrebbe conservato un sasso raccolto sul fondo del "dirupo" come ricordo.
Finalmente era giunto alla sommità della collinetta: tutto era esattamente come lo ricordava, con la vegetazione abbondante ma rinsecchita. Subito cercò con lo sguardo la fenditura tra le rocce, accorgendosi che la vegetazione la nascondeva assai meglio di qualche anno prima, anche se non fu un problema farsi largo fino ad arrivare al suo limite, quando per un momento indugiò nei suoi propositi. Ma non poteva tirarsi indietro: se l'era promesso, e in fondo non si trattava di nulla di speciale, solo scendere, controllare e risalire. Si fece forza, e iniziò a calarsi nel piccolo crepaccio. Quando i suoi piedi toccarono il fondo avvertì una sensazione di disagio: a dar retta a Zio Antonio in quel momento si trovava dirimpetto alla tana dei diavoletti delle montagne, circondato da pareti di roccia alte più di 3 metri. Cercò di non pensarci, si abbassò leggermente fino ad afferrare il bordo muschioso della roccia, e gettò un'occhiata all'interno, con il cuore che batteva forte. Non vide nulla, nulla al di là di un metro di terriccio odoroso di muffa e avvolto in un'ombra buia come la notte, nonostante solamente pochi metri più in là il sole della Puglia fosse quasi a picco, e il caldo insopportabile. Francesco frugò rapidamente nel marsupio a tracolla, estraendo il suo coltellino svizzero, non esitando un istante ad azionarne la piccola luce al led, anche se il risultato fu molto minore alle attese: il fascio di luce non aggiungeva che circa un metro alla sua visuale, e non permettendogli di vedere il fondo. Eppure era sicuro, non c'erano dubbi, quella piccola grotta doveva finire dopo pochi metri, il fondo doveva essere lì a un palmo, era cosa certa.
Fu allora che decise di avanzare all'interno: doveva verificare la sua teoria. Abbassò il capo nelle spalle, inarcò la schiena, e puntando la torcia davanti a sè entrò nella grotta, tossendo per l'esalazione di quell'aria tanto pungente e odorosa. Con stupore constatò che l'interno era molto più largo di quanto sembrasse dall'esterno e, pur con qualche difficoltà, riusciva a muoversi abbastanza liberamente. Avanzò quindi di qualche passo, sicuro di arrivare al limitate del pertugio, eppure il paesaggio illuminato dall'evanescente fascio di luce non cambiava: terriccio, muschio, funghi e sassi.
All'improvviso, dopo aver percorso almeno 5 metri in quella specie di tunnel, Francesco notò un luccichio davanti a sè, sul terreno. Incuriosito vi indirizzò quanta più luce possibile, anche se non servì a molto: era impossibile capire di che si trattasse senza avvicinarsi ulteriormente. Avanzò di un altro metro, sforzandosi di distingure quel bagliore prima di allungare la propria mano per afferrarlo, infine si decise: con suo grande stupore si rese conto di stringere tra le mani una moneta, raffigurante l'effige di un uomo sconosciuto, in un metallo che, sperava di non sbagliarsi, doveva essere argento, e accanto a lei, poco più in là, ce ne era un'altra, perfettamente identica. Subito pensò alle tante storie sui briganti, e immaginò che, se davvero avevano infestato quelle terre, allora la grotta in cui si trovava doveva rappresentare un punto più che ideale per nascondere i loro tesori, circondata com'era da leggende di spiritelli dispettosi e di spiriti guardiani della vecchia rocca.
Aveva trovato solo un paio di monete, era vero, ma il tesoro dei briganti doveva essere li, non nelle vecchie case chiuse da lucchetti arrugginiti, ma nella tana degli scazz' matiedd, dalla quale chiunque abitante del posto si sarebbe tenuto alla larga, ma lui no, lui non era di quelle parti, e non credeva a quelle frottole, non più. La presenza di quelle monete non poteva essere un caso, ce ne dovevano essere delle altre, pensò forse gettate alla rinfusa verso il fondo, che non poteva essere lontano, o nascoste in un piccolo forziere, insieme magari a qualche arma e una botte di liquore. Infilandosi la moneta nella tracolla Francesco proseguì, rimuovendo con le sue mani strati e strati di muschio, avanzando lentamente, instancabile. Dopo pochi metri le sue fatiche furono ricompensate: trovò un sacchetto lacero di cuoio appoggiato a un grosso sasso, con all'interno altre 6 o 7 monete, mentre vicino ad esso c'era una piccola fiaschetta, che non osò aprire ma non esitò a nascondere nel marsupio.
Era al settimo cielo: aveva trovato il tesoro dei briganti. Non poteva fermarsi, non riusciva a smettere di cercare, chissà cos'altro avrebbe potuto trovare, ma non doveva trascurare nulla, nemmeno un centimetro di quella grotta, così che avanzò freneticamente per almeno altri 5 metri, anche più, senza accorgersene, fermandosi solo quando credette di udire un rumore davanti a sè. Di cosa si trattasse non poteva dirlo, ma lo impensierì il fatto che potesse trattarsi di un qualche cedimento nella roccia, così per un attimo si immobilizzò, rimanendo in ascolto. Si rese conto solo in quel momento di quanto fosse penetrato all'interno del pertugio. Sopra di sè doveva avere tonnellate di rocce: se il tunnel fosse crollato per lui non ci sarebbe stato scampo. Si accorse anche di essere immerso nel buio più completo, esclusion fatta per il piccolo gadget del suo coltellino svizzero che non gli forniva più di un metro di visibilità. Fu allora che avvertì la fine di quella scarica di adrenalina che l'aveva condotto fino a lì, e desiderò tornare indietro con ogni sua forza, fino a uscire da quel tunnel, ritrovando nuovamente il sole sopra la sua testa. Fece per voltarsi, rinunciando al suo iniziale proposito di esplorare fino in fondo la grotta, quando vide per la seconda volta un luccichio davanti a sè, e la possibilità di aggiungere altri pezzi al tesoro immediatamente prevalse sulla paura, tanto che si decise a proseguire ancora, almeno fino a raggiungere quell'ultimo bagliore illuminato dalla sua piccola torcia, quello e null'altro, poi sarebbe tornato indietro, per tornare l'indomani con una fonte di luce più affidabile, a caccia di tesori.
Dopo un solo passo in avanti Francesco si accorse che c'era qualcosa che non andava in quel luccichio: non era al livello del terenno, bensì almeno una decina di centimetri più in alto, come se la moneta, perchè di quello doveva trattarsi, fosse adagiata su una roccia, o, piuttosto, sospesa a mezzaria. Cercò di direzionare al meglio il debole fascio di luce in quella direzione, ed ecco apparire un secondo luccichio, a pochi centimetri di distanza dal primo, e poi altri 2 in parte ad essi, sempre alla stessa equidistanza tra loro. Un brivido percorse Francesco: erano occhi a fissarlo, occhi di animali, gli stessi che avevano procurato quei rumori poco prima. Tutto avvenne molto rapidamente, eppure Francesco riuscì a elaborare varie teorie su a chi potessero appartenere: ratti, pensò inizialmente, oppure tassi, o faine, ogni specie di animale in cui fosse possibile imbattersi frugando in una grotta accessibile solo attraverso un dirupo, ma quando quegli occhi si mossero capì che non poteva trattarsi di semplici roditori.
Occhi gialli sbarravano il suo cammino. Una doppia coppia di occhi molto più grandi di come apparivano solo mezzo metro più indietro, 4 pupille sottili attorniate da un'iride innaturalmente dorata fissi su di lui, il resto del corpo invisibile, protetto dall'oscurità. Il coltellino gli cadde di mano, mentre un urlo gli morì in gola. Non vedeva più nulla, e in preda al panico cercò di voltarsi; l'operazione, già complessa in una situazione normale per uno spazio tanto angusto, gli risultò quasi impossibile data la sua agitazione, e finì per strisciare il braccio contro la parete rocciosa, causandosi numerose e dolorose escoriazioni. Naturalmente non vi badò affatto, provò semplicemente a muovere le sue gambe il più velocemente possibile, ma si accorse di non averne il controllo: cadde e prese ad avanzare carponi, affondando le mani nel terriccio, affrentandosi più che poteva per riuscire finalmente a rivedere la luce, la sola cosa alla quale in quel momento riuscisse a pensare.
Mancava oramai solo qualche metro all'agognata uscita della grotta, Francesco già riusciva a sentire la differenza di consistenza nell'aria che inalava, quando qualcosa gli afferrò la caviglia, qualcosa di molto simile a una mano, a una piccola mano ossuta. Questa volta Francesco non si trattenne e urlò, urlò con quanto fiato aveva in gola, e tanto bastò perchè la mano allentasse la sua presa, e lui riuscisse a divincolarsi, raggiungendo in un lampo l'uscita della grotta. Si arrampicò come una furia fino alla base della torre, e poi ridiscese il cumulo di massi atterrando malamente in strada, rischiando una storta alla caviglia: solo allora si volse indietro.
Non vide nulla. Nessuna creatura lo stava inseguendo. Con il cuore sul punto di esplodere dentro alla gabbia toracica finalmente il suo sguardo cadde sul suo braccio: niente di serio, pensò, mentre rifletteva su cosa avrebbe potuto raccontare ai suoi genitori per giustificarlo. Si accorse di quanto fosse strano che quella costituisse la sua prima preoccupazione: aveva incontrato 2 creature che non dovevano esistere, 2 diavoletti delle montagne, quelli che gli abitanti del luogo chiamavano scazz' matiedd -cos'altro erano altrimenti?- e ora si preoccupava di un braccio graffiato da giustificare tornando a casa. Ridicolo.
Fu allora che riflettè veramente sul fatto, e sulle sue conseguenze: avrebbe dovuto dirlo a qualcuno? E a chi? Ai suoi genitori forse? E sarebbe veramente stato creduto? Si andò a sedere su una delle panchine ricavate dalla roccia stessa poste ai lati della strada, trascinando leggermente il piede con cui era atterrato male, controllò che non ci fosse in giro nessuno, e quindi aprì il suo marsupio: le monete che aveva raccolto erano decisamente vere, e anche la fiaschetta, così come autentiche dovevano essere le creature nascoste in quel tunnel: non poteva essersele immaginate, non poteva averle confuse con qualsivoglia roditore, no. E poi quegli occhi gialli, rilucenti in modo tanto innaturale.
Sapeva di non essere pazzo, ma volle ugualmente controllarsi la caviglia: aveva distintamente sentito qualcosa afferrarla con forza, e avrebbero dovuto esserci dei segni, se non se lo era sognato. Abbassò il calzino destro, e con orrore si accorse che dei segni c'erano, eccome: la forma rossa di 3 lunghe dita.
Non lo avrebbe raccontato a nessuno, mai. Respirò profondamente, raccolse le energie e si alzò dalla panchina, con tutta l'intenzione di dirigersi a casa e dimenticarsi di quanto era accaduto, di quanto aveva visto e sentito, anche se sapeva che non sarebbe stato facile, che non sarebbe stato possibile.
Percorse con precisione l'intricato labirinto di viottoli che conducevano a casa, balbettando una scusa banale per le condizioni in cui la madre trovò il suo braccio, quindi si offrì di aiutare i genitori nell'immane opera di pulizia. Voleva tenersi occupato, voleva allontanare il pensiero di quegli occhi gialli, di quella mano forte e ossuta, voleva allontanare la paura.
Terminati i lavori arrivò l'ora di cena, sulla quale si tuffò senza ritegno, ottenendo perfino il permesso dal padre di bere mezzo bicchiere di vino, e tanto bastò per annebbiargli un po' la mente, esattamente quello che voleva. Non esisteva, in effetti, una scusa migliore per evitare domande più approfondite su quei graffi che starsene in disparte sul divano, preda di un leggero mal di testa. Non aveva alcuna voglia di fare conversazione, e dopo il lieve malore finse grande stanchezza, nè i suoi genitori, esausti, tardarono a raggiungere il letto, per il meritato riposo, lasciandolo solo, immerso nei suoi pensieri.
Presto si accorse di non riuscire a dormire. La casa vera era composta da un solo piano, e sole 3 stanze: una camera da letto nella quale dormivano i genitori, un piccolo bagno e un grande stanzone principale, che riuniva in sè le funzioni di sala e di cucina, ma anche di stanza da letto, con la presenza del divanetto su cui si trovava. Quest'ultimo era situato sullo stesso lato dello stretto balcone, reso inutilizzabile dalla sua pavimentazione cedevole, le cui ante i genitori avevano lasciato spalancate, per far girare un po' d'aria. Quel balcone non gli dava tranquillita, anzi, era per Francesco motivo d'insonnia. Ogni fruscio, ogni rumore che la notte portava co sè lo turbavano nel profondo, mentre a più riprese immaginava figure perverse e agili correre veloci tra le strade, cercandolo, lui che aveva violato il loro segreto, lui che sapeva della loro esistenza. Passarono 10 minuti, poi 20, infine mezzora. Questo pensiero non riusciva a dargli pace, anzi si accresceva di dettagli: immaginò orde di quelle creature arrampicarsi, silenziose, riversandosi infine ai piedi e ai lati del suo letto, pronte ad assalirlo.
Pur trovandolo assurdo, Francesco decise di alzarsi dal suo letto e, senza indossare delle ciabatte per non fare rumore, chiuse la finestrella del bagno, e sistemò un pesante scatolone pieno di cose da buttare sopra la botola accanto all'ingresso, infine chiuse le ante del balcone, non mancando di scrutare in ogni direzione lungo le strade deserte e oscure, nell'unico luogo, pensò, in cui ancora non esisteva l'illuminazione notturna in ogni via del paese. Non appena si coricò si sentì più sicuro, molto più sicuro, e stanco, tremendamente stanco. Si addormentò, profondamente, in capo a pochi minuti, salvo poi svegliarsi anzitempo, nel cuore della notte. Sentì un brivido d'aria fresca sulla schiena, si voltò e si accorse che le ante del balcone erano nuovamente aperte: forse i suoi genitori, accaldati, le avevano rimesse nello stesso stato in cui le avevano lasciate, domandandosi per quale motivo il figlio le avesse chiuse, dato che normalmente era il primo a lamentarsi per il caldo, e in quella casa non esistevano nè climatizzatori nè altro. Per un momento pensò di alzarsi e richiuderle, ma poi decise di lasciar perdere, e di riaddormentarsi velocemente, poi si accorse di sentirsi a disagio. Di sentirsi osservato.
Provò l'istinto di balzare a sedere sul letto volgere il suo sguardo verso il balcone, ma si sforzò, anzi si impose di non farlo, come se temesse di trovare qualcosa, o qualcuno, intento a studiarlo. Passarono alcuni minuti e la sensazione non diminuì affatto, anzi: ora era convinto di avere 2 paia di occhi puntati sulla sua schiena. Si fece coraggio, e si voltò, in modo tale da riuscire a scorgere il balcone, ma anche di sembrare addormentato, sbirciando con un solo occhio socchiuso.
Dapprima non vide nulla di insolito, solo la luna comparire nell'angolo più lontano del rettangolo di cielo a disposizione del suo sguardo. Poi quell'unica fonte di luce rese visibili quelle 2 forme, aggrappate come panni stesi alla ringhiera metallica del balcone: 2 esseri che a Francesco parvero ripugnanti eppure indistinti, sgraziati eppure magnetici nei loro occhi gialli dello stesso colore della luna.
Non appena si accorsero di essere stati scoperte, le 2 creature si staccarono dalla loro presa, atterrarono sul cemento cedevole del balcone ed avanzarono all'interno della stanza, piano, con le lunghe braccia raschianti per terra per effetto dei tozzi arti inferiori. Francesco angora non riusciva a metterle perfettamente a fuoco, ma avrebbe potuto giurare che assomigliassero alle vecchie che gli chiedevano come stava e dove andava quando lo vedevano gironzolare, solo erano molto più brutti, e con il corpo simile a quello di una rana, verdognoli e con piedi enormi, mani con 3 dita e quegli occhi gialli e sporgenti.
Francesco non provò nemmeno a urlare o a muoversi. Forse perchè impietrito dalla paura, forse perchè una parte di sè si era convinta che si trattasse solo di un incubo, da cui era impossibile fuggire, ma in seguito gli piacque pensare di essere rimasto immobile perchè sapeva di doverlo fare, e che quella costituisse l'unica chiave per la sua salvezza.
Gli esseri avanzarono fino ai piedi del suo letto, ma non si avvicinarono ulteriormente: se lo avessero fatto, o se vi fossero saliti sopra, allora probabilmente Francesco sarebbe davvero morto di paura. Si osservarono l'un l'altro, poi intorno a sè, come se stessero cercando qualcosa, infine uno dei 2 trovò il marsupio di Francesco appeso a una sedia, e lo afferrò, scuotendolo lievemente fino a sentire il tintinnio delle monete. Anche l'altro lo raggiunse, e insieme emisero una specie di bassa risata, rivolgendogli un'occhiata che lo fece rabbrividire. Quello dei 2 che aveva trovato il marsupio lo lacerò con una delle unghie affilate delle sue dita, estrasse il sacchetto contenente le monete trovate nel pomeriggio e la fiaschetta, infilandoseli in una sorta di gonnellino che Francesco fino a quel momento non aveva notato, e poi sorrise, mostrando una fila di denti gialli, mentre con un balzo si gettò dal balcone aperto, scomparendo nella notte. L'altro afferrò a sua volta il marsupio, estraendone il restante contenuto: portafogli, cellulare e coltellino, e uno ad uno infilò ogni oggetto nel suo gonnellino lacero. Voleva fargli sapere che quegli oggetti ora gli appartenevano, prendendoli singolarmente, con una lentezza irritante: lui aveva osato rubare il suo tesoro, ora avrebbe rubato tutto ciò che gli apparteneva.
Quando ebbe finito piazzò il suo sguardo su quello di Francesco, osservandolo a lungo con quei suoi occhi gialli al contempo feroci e inespressivi, poi si voltò e fuggì via, verso le montagne a cui apparteneva, lontano, ma mai abbastanza da abbandonare i suoi incubi.

1 commento:

  1. Simone Lari: Un racconto piuttosto particolare, che mi è parso un po’ più lungo degli altri. Presenta alcuni aspetti positivi, mentre su altri c’è ancora un pò da lavorare. La frase finale che descrive gli occhi come “inespressivi, ma al contempo feroci” non mi ha convinto molto.

    Maddalena Cioce: Un altro racconto che ha come protagonista il piccolo Francesco in vacanza in Puglia, questa volta alle prese con gli spiritelli del folklore locale. Non ho molto da aggiungere rispetto alla storia precedente, dato che i pro e i contro riscontrabili sono praticamente gli stessi.

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