Scazz'
matiedd
Era oramai qualche anno che
Francesco mancava dalla Puglia: 3 per l'esattezza, ovvero dall'anno
in cui sua nonna si era ammalata, preludio alla morte che era
sopravvenuta, rapida, quello stesso Inverno. Aveva solo 10 anni
allora, e da quel momento in poi sua madre non aveva più voluto
tornare alla casa materna, considerandola evidentemente troppo carica
di ricordi a lei cari. Non che a Francesco questa decisione
dispiacesse: non era mai riuscito davvero
a comunicare con sua nonna,
la quale in vita era stata troppo tempo sola per coltivare un normale
rapporto con il nipote o con il genero residenti al Nord, tanto da
trasmettere loro la sgradevole sensazione di essere considerati poco
più che sconosciuti.
Il piccolo paese nel quale
viveva sua nonna era, inoltre, lontano anni luce dalla bella
cittadina milanese in cui viveva: era retrogado e scomodo, con tutti
quei gradoni intagliati nella roccia, e poi c'erano tutte quelle
anziane vestite di nero, che lo fermavano per parlargli in una lingua
che lui non riusciva a capire. Certo, crescendo questa visione era un
po' cambiata, e forse addolcita dal ricordo: ora ciò che un tempo
gli era sembrato antiquato gli appariva pittoresco, la scomodità una
sfida, e gli anziani seduti sull'uscio della propria casa immancabili
componenti di quella realtà.
Quell'anno, infatti, sua
madre aveva deciso di tornare, e dopo il lungo viaggio lui era subito
fuggito da una casa invasa dalla polvere e chissà quante altre forma
di vita: se la sarebbe vista suo padre con loro, pensò, mentre lui
sarebbe tornato per cena, a disinfestazione terminata. Aveva con sè
l'immancabile tracolla, con dentro portafoglio, cellulare e un
coltellino svizzero multiuso, dotato di bussola e luce al led, un
neoacquisto di cui andava particolarmente fiero e con il quale
avrebbe potuto forzare con facilità, immaginava, i lucchetti posti
alle tante porte marcilente di quella che lui aveva per l'appunto
ribatezzato come "la Via marcia", dando poi, con la piccola
pila incorporata, una rapida occhiata al loro interno. Era, questo,
un proposito che si era prefissato ricordandosi dei burleschi
racconti dello Zio Antonio; quest'uomo era, nei suoi ricordi, l'unico
parente della madre per cui provasse simpatia: poteva avere sui 50
anni, era basso, ben piazzato, con i capelli sempre arruffati, e ogni
estate portava per lui un giocattolo, rispondendo poi con una marea
di frottole alle sue curiosità. Ricordava di avergli chiesto, ormai
4 anni prima, chi abitava in quella via dove ogni casa era chiusa da
un lucchetto e da ogni finestra infranta spuntavano rami e foglie, e
suo zio gli aveva risposto che quella via un secolo prima era abitata
da gran briganti, di quelli che infestavano i boschi derubando
chiunque vi si avventurasse, e che ogni casa nascondeva un tesoro
lasciato per i propri figli. Aveva aggiunto inoltre che, anche se
questi ultimi se ne erano andati in America dimenticandosi perfino il
nome del proprio paese d'origine, doveva stare bene attento e non
pensare di poter per questo mettere le mani sui tesori, perchè
quelle stesse case erano piene di trabocchetti ancora in funzione e
un suo conoscente una volta ci era rimasto secco, ora cadendo in una
botola profonda e piena di ratti famelici, ora rimanendo impigliato
in una rete imbevuta di veleno, estratto da una pianta che solo da
quelle parti si poteva trovare, negli angoli più remoti del cimitero
locale. Francesco ricordava di ascoltare per ore questi racconti, non
accorgendosi di come lo Zio Antonio si stesse in realtà divertendo a
raccontare delle storielle al bimbetto di città, al ragazzino del
Nord che credeva a ogni cosa gli venisse detta. Ora era cresciuto, e
si rendeva conto che quelle storie volevano solo, allo stesso tempo,
affascinarlo e tenerlo lontano da quella via sporca e piena di
detriti, con ogni edificio pericolante per via del terremoto di quasi
50 anni prima. Questo adesso lo sapeva, ma sapeva anche che in quel
paese i briganti c'erano stati, eccome. Per questo ora voleva aprire
almeno una porta, per dare un'occhiata veloce all'interno, preda
della curiosità. Naturalmente era sicuro di farcela, con il suo
coltellino svizzero, doveva essere una cosa semplicissima, ma scoprì
presto che non era così semplice, anzi. Aveva scelto una porticina
seminascosta da un pezzo di muro diroccato, al riparo dallo sguardo
di chi poteva passare dall'altro capo della via, una piccola porta
marcilenta decorata da un groviglio di vecchie ragnatele e chiusa da
una catena arrugginita alla quale era attaccato un lucchetto ridotto
anche peggio. Eppure non volle cedere: provò a forzarlo con la lama
del coltello, con le varie estremità appuntite e sottili che
sembravano ai suoi occhi più che adatte allo scopo, infine con la
piccola sega in dotazione provò a tranciare le catene, ma nulla,
tutti i suoi sforzi risultarono vani.
Era deluso, non poteva
nasconderlo. Tornò sui suoi passi, risalendo quei gradoni pieni di
ciarpame, fino a ritrovarsi all'imbocco della via che lo avrebbe
riportato a casa, ma senza nessuna voglia di tornarvi. Riflettè un
momento sulle sue alternative (passare la giornata ad aiutare i suoi
genitori o a rileggere i giornalini che si era portato da casa) e
decise che la sua opzione migliore consisteva sicuramente nel
procedere verso il secondo obbiettivo di quella sua spedizione: la
torre diroccata.
Nelle storie dello Zio
Antonio quel vecchio rudere era citato un'infinità di volte:
inizialmente lo aveva dipinto come infestato da fantasmi, poi come
covo dei briganti, infine aveva insistito con la storia degli scazz'
matiedd, una specie di spiritelli maligni delle montagne,
vendicativi e dispettosi, che sarebbero vissuti in una fenditura
della roccia, alla quale era possibile accedere dalla base della
torre. Questa fenditura, spiegava Zio Antonio, era profondissima, e
si apriva fino al centro della terra stessa, da dove questi
spiritelli provenivano, salvo poi rimanere intrappolati in questo
mondo per tormentare chi osava avventurarsi di notte per le vie del
castello.
La prima volta che aveva
sentito parlare degli scazz' matiedd era
solo un bambino di 6, 7 anni al massimo, e ricordò di essere rimasto
molto impressionato, e di aver dato la cosa come per certa,
confermata, peraltro, dall'effettiva presenza di quella fenditura,
come gli aveva confermato suo padre. Eppure qualche anno dopo non
aveva resistito, e aveva voluto vederla con i suoi occhi, così che
una mattina si era inerpicato tra le rocce fino ad arrivare alla base
dell'edificio, scoprendo che suo padre aveva detto il vero, che la
fenditura c'era, eccome, anche se non sembrava nulla di che: appariva
semplicemente come lo spazio vuoto tra 2 grandi massi, anche se
all'epoca non osò scendere per approfondire la sua curiosità.
Prima
di partire per la Puglia dopo quei 3 anni di assenza Francesco si era
proposto di verificare quanto veramente fosse lungo quel passaggio:
se era di centinaia di metri, come sosteneva suo Zio, o nulla di più
che un pertugio deserto e ampio meno di qualche metro, come
immaginava lui. Ora che aveva sondato la sua incapacità di forzare
un vecchio lucchetto non gli rimaneva altro da fare che verificare
questa sua teoria; di certo lui, a spiritelli, goblin o demonietti
che fossero, ora non credeva più. Era davvero facile, pensò mentre
si inerpicava tra il cumulo di terra e rocce, ingannare un bambino
con tutte quelle assurdità, e rimpiangeva di essere stato tanto
suggestionabile da piccolo, ma ora tutto era diverso, e stabilire con
certezza che il rifugio degli scazz' matiedd fosse
solo una leggenda sarebbe servito a lasciarsi definitivamente alle
spalle quel periodo della sua vita: si sentiva grande, oramai, tra
poco più di un anno sarebbe andato alle superiori, e i suoi gli
avrebbero comprato un motorino. Erano finiti gli anni in cui credeva
alle storielle, e non mancava mai di controllare con lo sguardo ogni
angolo della sua stanza prima di spegnere la luce. Basta storielle.
Basta frottole. Avrebbe messo fine in prima persona a tutto quanto,
grazie alle sue capacità di scalatore e alla sua torcia, e avrebbe
conservato un sasso raccolto sul fondo del "dirupo" come
ricordo.
Finalmente era giunto alla
sommità della collinetta: tutto era esattamente come lo ricordava,
con la vegetazione abbondante ma rinsecchita. Subito cercò con lo
sguardo la fenditura tra le rocce, accorgendosi che la vegetazione la
nascondeva assai meglio di qualche anno prima, anche se non fu un
problema farsi largo fino ad arrivare al suo limite, quando per un
momento indugiò nei suoi propositi. Ma non poteva tirarsi indietro:
se l'era promesso, e in fondo non si trattava di nulla di speciale,
solo scendere, controllare e risalire. Si fece forza, e iniziò a
calarsi nel piccolo crepaccio. Quando i suoi piedi toccarono il fondo
avvertì una sensazione di disagio: a dar retta a Zio Antonio in quel
momento si trovava dirimpetto alla tana dei diavoletti delle
montagne, circondato da pareti di roccia alte più di 3 metri. Cercò
di non pensarci, si abbassò leggermente fino ad afferrare il bordo
muschioso della roccia, e gettò un'occhiata all'interno, con il
cuore che batteva forte. Non vide nulla, nulla al di là di un metro
di terriccio odoroso di muffa e avvolto in un'ombra buia come la
notte, nonostante solamente pochi metri più in là il sole della
Puglia fosse quasi a picco, e il caldo insopportabile. Francesco
frugò rapidamente nel marsupio a tracolla, estraendo il suo
coltellino svizzero, non esitando un istante ad azionarne la piccola
luce al led, anche se il risultato fu molto minore alle attese: il
fascio di luce non aggiungeva che circa un metro alla sua visuale, e
non permettendogli di vedere il fondo. Eppure era sicuro, non c'erano
dubbi, quella piccola grotta doveva finire dopo pochi metri, il fondo
doveva essere lì a un palmo, era cosa certa.
Fu allora che decise di
avanzare all'interno: doveva verificare la sua teoria. Abbassò il
capo nelle spalle, inarcò la schiena, e puntando la torcia davanti a
sè entrò nella grotta, tossendo per l'esalazione di quell'aria
tanto pungente e odorosa. Con stupore constatò che l'interno era
molto più largo di quanto sembrasse dall'esterno e, pur con qualche
difficoltà, riusciva a muoversi abbastanza liberamente. Avanzò
quindi di qualche passo, sicuro di arrivare al limitate del pertugio,
eppure il paesaggio illuminato dall'evanescente fascio di luce non
cambiava: terriccio, muschio, funghi e sassi.
All'improvviso, dopo aver
percorso almeno 5 metri in quella specie di tunnel, Francesco notò
un luccichio davanti a sè, sul terreno. Incuriosito vi indirizzò
quanta più luce possibile, anche se non servì a molto: era
impossibile capire di che si trattasse senza avvicinarsi
ulteriormente. Avanzò di un altro metro, sforzandosi di distingure
quel bagliore prima di allungare la propria mano per afferrarlo,
infine si decise: con suo grande stupore si rese conto di stringere
tra le mani una moneta, raffigurante l'effige di un uomo sconosciuto,
in un metallo che, sperava di non sbagliarsi, doveva essere argento,
e accanto a lei, poco più in là, ce ne era un'altra, perfettamente
identica. Subito pensò alle tante storie sui briganti, e immaginò
che, se davvero avevano infestato quelle terre, allora la grotta in
cui si trovava doveva rappresentare un punto più che ideale per
nascondere i loro tesori, circondata com'era da leggende di
spiritelli dispettosi e di spiriti guardiani della vecchia rocca.
Aveva trovato solo un paio
di monete, era vero, ma il tesoro dei briganti doveva essere li, non
nelle vecchie case chiuse da lucchetti arrugginiti, ma nella tana
degli scazz' matiedd, dalla quale chiunque abitante del posto
si sarebbe tenuto alla larga, ma lui no, lui non era di quelle parti,
e non credeva a quelle frottole, non più. La presenza di quelle
monete non poteva essere un caso, ce ne dovevano essere delle altre,
pensò forse gettate alla rinfusa verso il fondo, che non poteva
essere lontano, o nascoste in un piccolo forziere, insieme magari a
qualche arma e una botte di liquore. Infilandosi la moneta nella
tracolla Francesco proseguì, rimuovendo con le sue mani strati e
strati di muschio, avanzando lentamente, instancabile. Dopo pochi
metri le sue fatiche furono ricompensate: trovò un sacchetto lacero
di cuoio appoggiato a un grosso sasso, con all'interno altre 6 o 7
monete, mentre vicino ad esso c'era una piccola fiaschetta, che non
osò aprire ma non esitò a
nascondere nel marsupio.
Era al settimo cielo: aveva
trovato il tesoro dei briganti. Non poteva fermarsi, non riusciva a
smettere di cercare, chissà cos'altro avrebbe potuto trovare, ma non
doveva trascurare nulla, nemmeno un centimetro di quella grotta, così
che avanzò freneticamente per almeno altri 5 metri, anche più,
senza accorgersene, fermandosi solo quando credette di udire un
rumore davanti a sè. Di cosa si trattasse non poteva dirlo, ma lo
impensierì il fatto che potesse trattarsi di un qualche cedimento
nella roccia, così per un attimo si immobilizzò, rimanendo in
ascolto. Si rese conto solo in quel momento di quanto fosse penetrato
all'interno del pertugio. Sopra di sè doveva avere tonnellate di
rocce: se il tunnel fosse crollato per lui non ci sarebbe stato
scampo. Si accorse anche di essere immerso nel buio più completo,
esclusion fatta per il piccolo gadget del suo coltellino
svizzero che non gli forniva più di un metro di visibilità. Fu
allora che avvertì la fine di quella scarica di adrenalina che
l'aveva condotto fino a lì, e desiderò tornare indietro con ogni
sua forza, fino a uscire da quel tunnel, ritrovando nuovamente il
sole sopra la sua testa. Fece per voltarsi, rinunciando al suo
iniziale proposito di esplorare fino in fondo la grotta, quando vide
per la seconda volta un luccichio davanti a sè, e la possibilità di
aggiungere altri pezzi al tesoro immediatamente prevalse sulla paura,
tanto che si decise a proseguire ancora, almeno fino a raggiungere
quell'ultimo bagliore illuminato dalla sua piccola torcia, quello e
null'altro, poi sarebbe tornato indietro, per tornare l'indomani con
una fonte di luce più affidabile, a caccia di tesori.
Dopo un solo passo in
avanti Francesco si accorse che c'era qualcosa che non andava in quel
luccichio: non era al livello del terenno, bensì almeno una decina
di centimetri più in alto, come se la moneta, perchè di quello
doveva trattarsi, fosse adagiata su una roccia, o, piuttosto, sospesa
a mezzaria. Cercò di direzionare al meglio il debole fascio di luce
in quella direzione, ed ecco apparire un secondo luccichio, a pochi
centimetri di distanza dal primo, e poi altri 2 in parte ad essi,
sempre alla stessa equidistanza tra loro. Un brivido percorse
Francesco: erano occhi a fissarlo, occhi di animali, gli stessi che
avevano procurato quei rumori poco prima. Tutto avvenne molto
rapidamente, eppure Francesco riuscì a elaborare varie teorie su a
chi potessero appartenere: ratti, pensò inizialmente, oppure tassi,
o faine, ogni specie di animale in cui fosse possibile imbattersi
frugando in una grotta accessibile solo attraverso un dirupo, ma
quando quegli occhi si mossero capì che non poteva trattarsi di
semplici roditori.
Occhi gialli sbarravano il
suo cammino. Una doppia coppia di occhi molto più grandi di come
apparivano solo mezzo metro più indietro, 4 pupille sottili
attorniate da un'iride innaturalmente dorata fissi su di lui, il
resto del corpo invisibile, protetto dall'oscurità. Il coltellino
gli cadde di mano, mentre un urlo gli morì in gola. Non vedeva più
nulla, e in preda al panico cercò di voltarsi; l'operazione, già
complessa in una situazione normale per uno spazio tanto angusto, gli
risultò quasi impossibile data la sua agitazione, e finì per
strisciare il braccio contro la parete rocciosa, causandosi numerose
e dolorose escoriazioni. Naturalmente non vi badò affatto, provò
semplicemente a muovere le sue gambe il più velocemente possibile,
ma si accorse di non averne il controllo: cadde e prese ad avanzare
carponi, affondando le mani nel terriccio, affrentandosi più che
poteva per riuscire finalmente a rivedere la luce, la sola cosa alla
quale in quel momento riuscisse a pensare.
Mancava oramai solo qualche
metro all'agognata uscita della grotta, Francesco già riusciva a
sentire la differenza di consistenza nell'aria che inalava, quando
qualcosa gli afferrò la caviglia, qualcosa di molto simile a una
mano, a una piccola mano ossuta. Questa volta Francesco non si
trattenne e urlò, urlò con quanto fiato aveva in gola, e tanto
bastò perchè la mano allentasse la sua presa, e lui riuscisse a
divincolarsi, raggiungendo in un lampo l'uscita della grotta. Si
arrampicò come una furia fino alla base della torre, e poi ridiscese
il cumulo di massi atterrando malamente in strada, rischiando una
storta alla caviglia: solo allora si volse indietro.
Non vide nulla. Nessuna
creatura lo stava inseguendo. Con il cuore sul punto di esplodere
dentro alla gabbia toracica finalmente il suo sguardo cadde sul suo
braccio: niente di serio, pensò, mentre rifletteva su cosa avrebbe
potuto raccontare ai suoi genitori per giustificarlo. Si accorse di
quanto fosse strano che quella costituisse la sua prima
preoccupazione: aveva incontrato 2 creature che non dovevano
esistere, 2 diavoletti delle montagne, quelli che gli abitanti del
luogo chiamavano scazz' matiedd -cos'altro erano altrimenti?-
e ora si preoccupava di un braccio graffiato da giustificare tornando
a casa. Ridicolo.
Fu allora che riflettè
veramente sul fatto, e sulle sue conseguenze: avrebbe dovuto dirlo a
qualcuno? E a chi? Ai suoi genitori forse? E sarebbe veramente stato
creduto? Si andò a sedere su una delle panchine ricavate dalla
roccia stessa poste ai lati della strada, trascinando leggermente il
piede con cui era atterrato male, controllò che non ci fosse in giro
nessuno, e quindi aprì il suo marsupio: le monete che aveva raccolto
erano decisamente vere, e anche la fiaschetta, così come autentiche
dovevano essere le creature nascoste in quel tunnel: non poteva
essersele immaginate, non poteva averle confuse con qualsivoglia
roditore, no. E poi quegli occhi gialli, rilucenti in modo tanto
innaturale.
Sapeva di non essere pazzo,
ma volle ugualmente controllarsi la caviglia: aveva distintamente
sentito qualcosa afferrarla con forza, e avrebbero dovuto esserci dei
segni, se non se lo era sognato. Abbassò il calzino destro, e con
orrore si accorse che dei segni c'erano, eccome: la forma rossa di 3
lunghe dita.
Non lo avrebbe raccontato a
nessuno, mai. Respirò profondamente, raccolse le energie e si alzò
dalla panchina, con tutta l'intenzione di dirigersi a casa e
dimenticarsi di quanto era accaduto, di quanto aveva visto e sentito,
anche se sapeva che non sarebbe stato facile, che non sarebbe stato
possibile.
Percorse con precisione
l'intricato labirinto di viottoli che conducevano a casa, balbettando
una scusa banale per le condizioni in cui la madre trovò il suo
braccio, quindi si offrì di aiutare i genitori nell'immane opera di
pulizia. Voleva tenersi occupato, voleva allontanare il pensiero di
quegli occhi gialli, di quella mano forte e ossuta, voleva
allontanare la paura.
Terminati i lavori arrivò
l'ora di cena, sulla quale si tuffò senza ritegno, ottenendo perfino
il permesso dal padre di bere mezzo bicchiere di vino, e tanto bastò
per annebbiargli un po' la mente, esattamente quello che voleva. Non
esisteva, in effetti, una scusa migliore per evitare domande più
approfondite su quei graffi che starsene in disparte sul divano,
preda di un leggero mal di testa. Non aveva alcuna voglia di fare
conversazione, e dopo il lieve malore finse grande stanchezza, nè i
suoi genitori, esausti, tardarono a raggiungere il letto, per il
meritato riposo, lasciandolo solo, immerso nei suoi pensieri.
Presto si accorse di non
riuscire a dormire. La casa vera era composta da un solo piano, e
sole 3 stanze: una camera da letto nella quale dormivano i genitori,
un piccolo bagno e un grande stanzone principale, che riuniva in sè
le funzioni di sala e di cucina, ma anche di stanza da letto, con la
presenza del divanetto su cui si trovava. Quest'ultimo era situato
sullo stesso lato dello stretto balcone, reso inutilizzabile dalla
sua pavimentazione cedevole, le cui ante i genitori avevano lasciato
spalancate, per far girare un po' d'aria. Quel balcone non gli dava
tranquillita, anzi, era per Francesco motivo d'insonnia. Ogni
fruscio, ogni rumore che la notte portava co sè lo turbavano nel
profondo, mentre a più riprese immaginava figure perverse e agili
correre veloci tra le strade, cercandolo, lui che aveva violato il
loro segreto, lui che sapeva della loro esistenza. Passarono 10
minuti, poi 20, infine mezzora. Questo pensiero non riusciva a dargli
pace, anzi si accresceva di dettagli: immaginò orde di quelle
creature arrampicarsi, silenziose, riversandosi infine ai piedi e ai
lati del suo letto, pronte ad assalirlo.
Pur trovandolo assurdo,
Francesco decise di alzarsi dal suo letto e, senza indossare delle
ciabatte per non fare rumore, chiuse la finestrella del bagno, e
sistemò un pesante scatolone pieno di cose da buttare sopra la
botola accanto all'ingresso, infine chiuse le ante del balcone, non
mancando di scrutare in ogni direzione lungo le strade deserte e
oscure, nell'unico luogo, pensò, in cui ancora non esisteva
l'illuminazione notturna in ogni via del paese. Non appena si coricò
si sentì più sicuro, molto più sicuro, e stanco, tremendamente
stanco. Si addormentò, profondamente, in capo a pochi minuti, salvo
poi svegliarsi anzitempo, nel cuore della notte. Sentì un brivido
d'aria fresca sulla schiena, si voltò e si accorse che le ante del
balcone erano nuovamente aperte: forse i suoi genitori, accaldati, le
avevano rimesse nello stesso stato in cui le avevano lasciate,
domandandosi per quale motivo il figlio le avesse chiuse, dato che
normalmente era il primo a lamentarsi per il caldo, e in quella casa
non esistevano nè climatizzatori nè altro. Per un momento pensò di
alzarsi e richiuderle, ma poi decise di lasciar perdere, e di
riaddormentarsi velocemente, poi si accorse di sentirsi a disagio. Di
sentirsi osservato.
Provò l'istinto di balzare
a sedere sul letto volgere il suo sguardo verso il balcone, ma si
sforzò, anzi si impose di non farlo, come se temesse di trovare
qualcosa, o qualcuno, intento a studiarlo. Passarono alcuni minuti e
la sensazione non diminuì affatto, anzi: ora era convinto di avere 2
paia di occhi puntati sulla sua schiena. Si fece coraggio, e si
voltò, in modo tale da riuscire a scorgere il balcone, ma anche di
sembrare addormentato, sbirciando con un solo occhio socchiuso.
Dapprima non vide nulla di
insolito, solo la luna comparire nell'angolo più lontano del
rettangolo di cielo a disposizione del suo sguardo. Poi quell'unica
fonte di luce rese visibili quelle 2 forme, aggrappate come panni
stesi alla ringhiera metallica del balcone: 2 esseri che a Francesco
parvero ripugnanti eppure indistinti, sgraziati eppure magnetici nei
loro occhi gialli dello stesso colore della luna.
Non appena si accorsero di
essere stati scoperte, le 2 creature si staccarono dalla loro presa,
atterrarono sul cemento cedevole del balcone ed avanzarono
all'interno della stanza, piano, con le lunghe braccia raschianti per
terra per effetto dei tozzi arti inferiori. Francesco angora non
riusciva a metterle perfettamente a fuoco, ma avrebbe potuto giurare
che assomigliassero alle vecchie che gli chiedevano come stava e dove
andava quando lo vedevano gironzolare, solo erano molto più brutti,
e con il corpo simile a quello di una rana, verdognoli e con piedi
enormi, mani con 3 dita e quegli occhi gialli e sporgenti.
Francesco non provò
nemmeno a urlare o a muoversi. Forse perchè impietrito dalla paura,
forse perchè una parte di sè si era convinta che si trattasse solo
di un incubo, da cui era impossibile fuggire, ma in seguito gli
piacque pensare di essere rimasto immobile perchè sapeva di doverlo
fare, e che quella costituisse l'unica chiave per la sua salvezza.
Gli esseri avanzarono fino
ai piedi del suo letto, ma non si avvicinarono ulteriormente: se lo
avessero fatto, o se vi fossero saliti sopra, allora probabilmente
Francesco sarebbe davvero morto di paura. Si osservarono l'un
l'altro, poi intorno a sè, come se stessero cercando qualcosa,
infine uno dei 2 trovò il marsupio di Francesco appeso a una sedia,
e lo afferrò, scuotendolo lievemente fino a sentire il tintinnio
delle monete. Anche l'altro lo raggiunse, e insieme emisero una
specie di bassa risata, rivolgendogli un'occhiata che lo fece
rabbrividire. Quello dei 2 che aveva trovato il marsupio lo lacerò
con una delle unghie affilate delle sue dita, estrasse il sacchetto
contenente le monete trovate nel pomeriggio e la fiaschetta,
infilandoseli in una sorta di gonnellino che Francesco fino a quel
momento non aveva notato, e poi sorrise, mostrando una fila di denti
gialli, mentre con un balzo si gettò dal balcone aperto, scomparendo
nella notte. L'altro afferrò a sua volta il marsupio, estraendone il
restante contenuto: portafogli, cellulare e coltellino, e uno ad uno
infilò ogni oggetto nel suo gonnellino lacero. Voleva fargli sapere
che quegli oggetti ora gli appartenevano, prendendoli singolarmente,
con una lentezza irritante: lui aveva osato rubare il suo tesoro, ora
avrebbe rubato tutto ciò che gli apparteneva.
Quando ebbe finito piazzò il suo sguardo su quello di
Francesco, osservandolo a lungo con quei suoi occhi gialli al
contempo feroci e inespressivi, poi si voltò e fuggì via, verso le
montagne a cui apparteneva, lontano, ma mai abbastanza da abbandonare
i suoi incubi.
Simone Lari: Un racconto piuttosto particolare, che mi è parso un po’ più lungo degli altri. Presenta alcuni aspetti positivi, mentre su altri c’è ancora un pò da lavorare. La frase finale che descrive gli occhi come “inespressivi, ma al contempo feroci” non mi ha convinto molto.
RispondiEliminaMaddalena Cioce: Un altro racconto che ha come protagonista il piccolo Francesco in vacanza in Puglia, questa volta alle prese con gli spiritelli del folklore locale. Non ho molto da aggiungere rispetto alla storia precedente, dato che i pro e i contro riscontrabili sono praticamente gli stessi.