giovedì 16 maggio 2013

Pasto o Progenie - Michele Lancelotti

Legendary Fantasy Contest!

Pasto o progenie



 «Mi raccomando caro, non dare problemi ai nonni, ascoltali e non dimenticarti dei compiti delle vacanze, intesi? Ah e non esagerare con i dolci che ti farà la nonna, lo sai che se ne mangi troppi poi stai male. E...»
«Ma si mamma, si, d'accordo! Guarda che non sono più un bambino!» sbottò Francesco, nell'esuberanza dei suoi 13 anni.
«Lo so tesoro, lo so: per questo io e il nonno abbiamo deciso che quest'anno lo aiuterai in campagna, e se farai un buon lavoro quando tornerai a casa tra 2 mesi potresti trovare quel gioco che volevi, quella x qualcosa...beh papà lo sa come si chiama quell'affare...ma, ripeto, solo se il nonno mi dirà che sei stato bravo...»
«Davvero? Grazie mamma, grazie!» Esultò Francesco, come se la console già lo attendesse a casa, dopo quei mesi estivi passati dai nonni materni in Puglia, e gli fosse già lecito fantasticare su quali giochi acquistare e quali altri avrebbe potuto farsi prestare dai cugini.
Il resto del viaggio Francesco lo trascorse proseguendo nelle sue fantasticherie e solo parzialmente ricordandosi i suoi doveri: anche oziando per la maggior parte del tempo, pensò, la mancanza di amici e intrattenimenti (i nonni non avevano neppure la televisione) lo avrebbero costretto a dedicare almeno un paio d'ore al giorno agli odiatissimi compiti delle vacanze. Trascorse le quasi 3 ore necessarie per raggiungere il paesino dei nonni sito nello sperduto entroterra foggiano, Francesco si riscosse da quel costante senso di sonnolenza che abitualmente trasmettono i lunghi viaggi in auto, aprì la portiera e respirò a pieni polmoni quell'aria così salutare, a detta di tutti, tanto da assicurare una così lunga vita a tutti gli abitanti del paesino, noto per la loro longevità. Vide presto una porticina aprirsi a pochi metri da lui, dietro la quale apparirono la figura di un uomo alto e magro, con un bel paio di baffi bianchi e un cappello di stoffa in testa a nascondere la calvizia, e quella di una donna bassa, piegata dall'età e costretta a servirsi di un bastone per muoversi, ma con un volto ancora tanto vitale e caratterizzato da 2 occhi agilissimi, ai quali nulla sfuggiva: i suoi nonni.
«Francesco!» esclamarono all'unisono vedendolo, non trattenendosi dal dispensargli carezze, pizzicotti e baci sulle guance.
Francesco subì l'attacco senza protestare -a che sarebbe servito?- attendendo con pazienza che l'attenzione dei nonni si spostasse dal nipotino alla figlia, ottenendo finalmente una tregua. Dopo essere entrati in casa, aver mangiato abbondantemente mentre sua mamma parlava con i nonni ed essersi concesso un riposino, Francesco venne infine risvegliato dal saluto della madre, pronta a ripartire per tornare a casa prima dell'imbrunire, ma non prima di avergli ribadito le solite raccomandazioni. Quando se ne andò Francesco scoprì che anche il suo relax era terminato, o almeno stava per farlo: il nonno gli aveva annunciato che l'indomani sarebbe dovuto andare in campagna insieme a lui, per aiutarlo nella raccolta delle olive. Lui cercò di rimandare, di ricordare ai nonni che in fondo era appena arrivato, ma il nonno fu irremovibile: era il periodo giusto per la raccolta, e aiutarlo nell'operazione era uno dei lavori più adatti per un bambino della sua età, così che Francesco non potè fare altro che arrendersi, e prepararsi alla levataccia del giorno dopo.
Quel mattino la sveglia suonò alle 5 e mezza per Francesco, anzi, non fu esattamente la sveglia a costringerlo ad alzarsi, ma la voce inamovibile del nonno, il quale non gli diede nemmeno il tempo di fare colazione: «Pane con un pezzo di formaggio mentre camminiamo» gli disse «come è sempre stato.»
Con passo incerto Francesco si preparò a sostenere le lunghe falcate del nonno, avvezzo da tutta una vita a fare quel percorso di circa 5 chilometri tutte le mattine, più altri 5 la sera, dopo un'intera giornata di duro lavoro nei campi.
«Da quanti anni la nonna non ti accompagna più in campagna?» domandò sperando di fiaccare il suo ritmo con un po' di conversazione.
«Mmh...4 anni...»
«Farai fatica, tutto da solo...» commentò Francesco, sperando di costringere il nonno a qualcosa di più articolato come risposta.
«No, non sono solo: c'è il pecoraio che mi da una mano quando serve, in cambio del permesso di attraversare le mie terre con le sue pecore. Per il resto, anche quando la nonna stava bene, ero sempre io a fare i lavori più pesanti, ci sono abituato.» fece lui.
«Il pecoraio?!» esclamò Francesco, stupefatto, ricordandosi di quella figura quasi grottesca, grande e opulenta, con quella barba folta e nera, quelle sopracciglia spesse e minacciose e quella voce profonda che tanto timore era capace di trasmettergli, le poche volte che lo aveva incontrato.
«Siamo d'accordo per diversi affari: io compro da lui il cacio, lui prende da me i conigli, e così via. Oggi ci sarà anche lui a darci una mano, in cambio di qualche bottigli d'olio d'oliva.» Spiegò il nonno.
Francesco rimase in silenzio, non osando dire al nonno di quanto il pecoraio lo mettesse a disagio, sapendo che l'avrebbe certamente sgridato, dicendogli di non giudicare le persone dal loro aspetto, che non era certo un uomo abituato a trattare con i bambini e altre cose ancora. Forse il nonno aveva ragione, ma quell'uomo a lui metteva i brividi, e non c'era nulla che potesse fare per evitarlo.
Camminarono a lungo, e mentre il nonno procedeva rapido, Francesco arrancava, fino a che non si ritrovà costretto a chiedere una pausa, per riprendere fiato e dare un momento di tregua ai suoi piedi doloranti, attirandosi un sorriso beffardo da parte del vegliardo.
«Senti nonno...ma il pecoraio sa che oggi ci sarò anche io con voi?» Domandò dopo aver ripreso un po' di fiato.
«Mmh? Si, si...A dire il vero è stata una sua idea...» rispose.
«Come una sua idea? Che intendi dire?»
«Qualche tempo fa stavamo lavorando insieme nei campi e gli ho parlato del fatto che quest'anno tua mamma voleva che ti facessi lavorare un po', dato che hai già una certa età, e lui mi ha suggerito di fatri partecipare alla raccolta delle olive...si ricordava di te, e anch'io ero d'accordo con lui di non poterti mettere a zappare o a tagliare la legna...sei un ragazzo di città, per certi lavori non sei portato...» concluse il nonno.
Francesco non sapeva se ritenersi maggiormente offeso dal fatto che un semisconosciuto avesse pianificato il suo lavoro estivo o dall'insulto velato del nonno nei confronti della sua forma fisica: certo non era cresciuto a pane e pomodoro macinando inoltre chilometri su chilometri per andare ad aiutare con i lavori nei campi come aveva fatto suo nonno, ma erano altri tempi.
«Avanti. Forza che siamo quasi arrivati.» Sentenziò il nonno mettendo fine alla sua pausa.
Così il cammino riprese. Poco dopo giunsero a una deviazione sul sentiero principale, si inerpicarono su uno stretto viottolo in salita, e infine arrivarono alla destinazione: uno sgangherato capanno, che il nonno chiamava masseria, circondato da maestosi ulivi carichi di frutto.
«Eccoci! Oh compare!» esclamò il nonno alla vista di una figura che fino a quel momento sembrava celata tra gli alberi e l'erba bruciata dal sole: il pecoraio.
«Ricordi mio nipote Francesco, si...ma non perdiamo tempo, gli ulivi sono pieni quest'anno, belli pieni, e da fare ce n'è...vieni Francesco, prendi questo cesto e raccogli quanto più riesci dai rami a cui arrivi, al resto pensiamo noi...via via!» disse il nonno in preda a una fastidiosa vitalità.
Francesco eseguì gli ordini, raccolse la cesta e iniziò a lavorare, ma non perse mai di vista il pecoraio, coltivando per tutto il tempo la convinzione che lo stesse anch'egli a sua volta osservando. Non gli piaceva, non gli piaceva per niente. Praticamente non parlava, -neppure il nonno, comunque, il quale badava solo a lavorare- ma ogni tanto emetteva un rumore, facendo schioccare la lingua sul palato, capace di fargli saltare i nervi. Non sapeva il perchè covasse questo astio nei confronti dell'uomo, ma era come una specie di direttiva inconscia del suo cervello, un input che gli ordinava di diffidare, osservare ed evitare. Passò diverse ore in quel modo, lavorando e osservando, sudando e immaginando.
Sapeva che il pecoraio non era un uomo sposato, che era più vecchio di suo nonno anche se non lo dimostrava per niente, con quella barba e quei capelli neri e abbondanti, che aveva una casa in paese, non lontana da quella dei suoi nonni, ma che spesso dormiva nella sua masseria, non molto diversa da quella del nonno, ovvero scomoda e isolata, con un pagliericcio pensato più che altro per un breve riposo dopo una mattinata di duro lavoro. Da questi dati elaborò diverse teorie, condite dalla sconfinata fantasia di cui tanto andava fiero, e tra tutte si concentrò su quella del brigante: la nonna gli aveva raccontato tante storie su di loro, ce ne erano di buoni e di cattivi, ma quelli cattivi erano terribili, e i nomi di Crocco, Chiavone, Mammone, Bizzarro e Fra'Diavolo ancora lo tenevano sveglio, la notte, ripensando alle terribili storie su di loro che aveva sentito.
Fossero stati altri tempi, Francesco si sarebbe detto sicuro che il pecoraio fosse in realtà un brigante. Se lo immaginava -eccome se se lo immaginava- a nascondere tesori nelle bare gettando via i cadaveri, a mangiare carne cruda insieme ai diavoli, a bere vino dal teschio dei rivali uccisi dopo averli aperti da parte a parte con un coltellaccio simile a quello che portava attaccato alla cintura. E poi, ancora, a cuocere le teste per ricavarne i teschi, ricavandone un'oscena poltiglia da dare in pasto ai suoi cani, ai suoi 2 enormi cani lupo dal pelo lucido, tanto docili ai suoi comandi. Improvvisamente Francesco trattenne a stento un conato di vomito, domandandosi da dove potessero provenire dei pensieri tanto torbidi, quindi alzò lo sguardo, cercando di capire se qualcuno si fosse accorto di quel suo gesto, e vide che il pecoraio lo stava fissando, dritto negli occhi. Si voltò subito, e con maggiore lena si rimise a raccogliere le olive, sforzandosi di ricacciare via quell'immagine del calderone ricolmo di teste umane, e del pecoraio sogghignante con il suo macabro calice ricolmo di vino.
Lavorò come mai, forse aveva fatto nella vita, fermandosi per una breve pausa solo per mangiare qualcosa con il nonno (mentre il pecoraio pranzava nella sua masseria, da li poco distante) e poi riprese a lavorare alacramente, senza perdersi in strane paranoie, fino a pomeriggio inoltrato, mostrando un'energia che lasciò tutti di stucco, lui compreso. Solo a quel punto si fermò, esausto, guardando il nonno con un'espressione allo stesso tempo fiera e supplice: aveva appena guardato l'orologio, e sapeva che mancava poco all'orario prefissato per la ripartenza.
«Inizio a rimettere tutto a posto nonno?» Chiese nella speranza di ricevere un assenso e magari anche dei complimenti per il buon lavoro svolto.
«Eh? No, no...ne parlavo prima con il compare...» fece il nonno «e siamo entrambi d'accordo che sarebbe un peccato smettere adesso, dato che ancora poco e avremmo finito tutto il lavoro...passeremo la notte in masseria, qualcosa da mangiare ce l'abbiamo...»
«Cosa? In masseria? No!» sbottò Francesco, per nulla contento di quella decisione.
«Di che hai paura? Non sai quante volte abbiamo dormito qui io e la nonna...c'è un letto, una coperta...di topi non ce ne sono, che la porta la teniamo sempre chiusa e buchi nei muri non ce ne stanno...tranquillo, c'è il nonno con te: vedrai, ti piacerà passare la notte in campagna!» Esclamò infine il nonno, con un sorriso ineffabile.
Francesco non potè far altro che rassegnarsi a fare come gli veniva detto, chiedendosì però perchè mai il nonno era così influenzato dal pecoraio, quando non lo era mai stato, che lui si ricordasse.
Presto, molto prima di quanto si aspettasse, il tramonto tinse la campagna di tutti quei colori che non era possibile vedere in città, varie sfumature di arancio, rosso e blu sospese sopra al colore ramato dei campi.
Dovevano essere circa le 21, e Francesco si ritrovò improvvisamente stanco e affamato. Entrò nella masseria quasi senza accorgersene, frugando in quegli angoli dove sapeva che il nonno conservava barattoli pieni di fichi secchi, e ne divorò a piene mani, senza ritegno: il lavoro era stato molto più duro di quanto immaginava, ma almeno aveva dimostrato a suo nonno che poteva farcela, e questo bastava a renderlo orgoglioso e fiero. Ai fichi seguirono dei pomodori sott'olio, un po' di formaggio e del pane raffermo, ma non si poteva pretendere, dopo di che non ci fu nemmeno il tempo di fare conversazione, tale era la stanchezza. Il nonno ebbe l'accortezza di scuotere accuratamente le coperte, assicurandosi che non vi fossero annidiati degli scarafaggi o, peggio, degli scorpioni, quindi invitò il nipote a dormire: l'indomani si sarebbero alzati alle prime luci dell'alba, per terminare definitivamente il lavoro e tornare a casa per pranzo. Francesco si coricò a fianco del nonno, scegliendo il lato più vicino al largo finestrone, provando ad addormentarsi fissando il chiarore della luna.
Chiarore di luna piena.
Non riuscii ad addormentarsi subito: la scomodità del pagliericcio, il respiro pesante del nonno, la stranezza di trovarsi a dormire in mezzo alla campagna e non nel suo letto, come la sera prima, eppure il vero problema era un altro: la luna. Non riusciva a distogliere lo sguardo da quella sfera che mai neela vita gli era sembrata tanto grande, tanto magnetica. Era disteso su un pagliericcio di una masseria di campagna, ma provava la sensazione di trovarsi altrove, perfino di sentire degli ululati perdersi nella notte, come se si trovasse dentro a un film. Poi gli ululati si fuserò in uno solo, profondo e distinto, inequivocabile. Per un momento, solo per un attimo, Francesco si irrigidì nelle coperte, ma, inaspettatamente, non provò paura: un ululato squarciava la notte, la fonte poteva essere soltanto a pochi chilometri dal suo letto, eppure lui non aveva la benchè minima paura. E questo era strano, molto strano: la paura solitamente si impossessava di lui con estrema facilità.
L'ululato saliva e scendeva di tono, e ora era vicino, vicinissimo: il lupo si stava muovendo. Francesco continuava a fissare la luna, rapito da un magnetismo mai provato, e quasi non si accorse del rapido movimento, della figura che in un lampo passò davanti alla finestra, più rapida di un qualsiasi animale. Solo una sensazione distante di quel passaggio venne colto dai suoi sensi, ma tanto bastò a mettere in moto la sua fantasia: cos'era? Poteva davvero essere un lupo? E se così era, perchè il pecoraio non si era precipitato alla masseria per avvisare il nonno? Si voltò cercando la sua figura confortante, desiderando scuoterlo e svegliarlo, anche se lo avrebbe certamente rimproverato, ma non vi riuscì. O meglio, riuscì a voltarsi, ma le braccia rimasero immobili, la bocca serrata: era come paralizzato. Rigirò ancora il collo da una parte all'altra, chiedendosi se forse stava semplicemente sognando, uno di quei sogni strani in cui si è bloccati da qualche parte o si cade nel vuoto, eppure non gli sembrava di essersi mai addormentato quella notte. L'ululato nel frattempo era ripreso, con ancora maggiore intensità: sembrava che il lupo si fosse piazzato esattamente al di là della porta, ma, ancora, lui non aveva paura, non riusciva ad averne. Poi accadde qualcosa di ancora più strano: l'ululato iniziò ad attirarlo a sé. Dapprima realizzò semplicemente di essere in preda a un'inconsueta curiosità, poi questa sensazione si intensificò fino a diventare insopportabile brama di alzarsi dal letto, e così fece, non potendovi più resistere. Camminò con un passò ritmato, meccanico, quasi come se fosse sotto l'influsso di una malia, fino alla porta, poi strinse la chiave tra il pollice e l'indice e la ruotò fino a far scattare la serratura. Ebbe un attimo di esitazione, poi la spinse, mentre una ventata dell'aria fresca della notte lo colpiva sul viso.
Ciò che vide lo lasciò senza fiato. A pochi metri, accanto all'ulivo più vecchio della proprietà, si ergeva una creatura enorme, ritta sulle zampe, con un manto argenteo che sembrava catturare i raggi lunari, il volto di un lupo e gli occhi di un falco. Appena lo vide la creatura ululò nella notte, e a Francesco parve impossibile che il nonno non si svegliasse, eppure non sentì alcuna voce dall'interno della masseria: doveva essere qualcosa di magico che non poteva comprendere a fare dormire il nonno, e quel qualcosa proveniva da quella creatura.
Un lupo mannaro. Il pecoraio. Doveva essere lui. Non era dunque un brigante, non era uno di quegli uomini che nei racconti della nonna razziavano i villaggi, violentavano le donne e si mangiavano i bambini. Era peggio, molto peggio. Era consapevole di tutto questo, sapeva che quella figura non sarebbe dovuta esistere eppure si trovava di fronte a lui, forte e selvaggia, sapeva che avrebbe dovuto tremare di terrore, eppure non riusciva a farlo. Non riusciva a provare paura.
Il suo corpo iniziò ad avanzare verso l'enorme licantropo che ululava alla luna, e ancora questa sensazione non riusciva a manifestarsi. Solo 2 concetti riuscivano ad attraversagli la mente: sarò per lui pasto o progenie?
Un passo
Pasto o progenie?
Ancora un passo
Pasto o progenie?
Ancora un ultimo
Pasto o...





1 commento:

  1. Simone Lari: Un titolo interessante e uno svolgimento attinente all’incipit, a cui andava probabilmente aggiunto il punto interrogativo, visto il finale relativamente aperto del romanzo, comunque piuttosto interessante.

    Maddalena Cioce: Un racconto ambientato nella mia amata terra natale: la Puglia. Una favola rurale che ha come protagonista un bambino alle prese con il nonno agricoltore e il suo amico pecoraio/lupo mannaro. Il finale è aperto, quindi lascia alla fantasia del lettore immaginare se il bambino sia sopravvissuto (immagino di sì, visto che è lo stesso protagonista del secondo racconto). Concordo col collega Simone che il titolo avrebbe necessitato di un punto interrogativo. Il racconto è scorrevole e abbastanza originale, d’altro canto riporta una serie non indifferente di refusi.

    RispondiElimina

Cerca nel blog